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lunedì 18 marzo 2024

Leggere Mastro Don Gesualdo

 


E così, ci sono riuscito anch’io a leggere “Mastro Don Gesualdo” di Giovanni Verga, un libro che mi trascinavo dietro, come una zavorra, da oltre mezzo secolo. Un libro che tutti conoscono – almeno per sentito dire - ma pochi l’hanno davvero letto; un libro su cui siamo stati interrogati da studenti, il cui protagonista è da considerare, forse, tra i maggiori della nostra letteratura.

Gesualdo Motta è un muratore di umili origini della Sicilia rurale della prima metà dell’ Ottocento; è un “mastro”, come suol dirsi, il quale - dopo essersi arricchito – convola a nozze con una giovane donna appartenente ad una nobile famiglia decaduta e conquista il “Don”, quale appellativo di riguardo riservato ai notabili. Per tutti è Mastro Don Gesualdo: un uomo gretto, astuto, che non dà nessun valore ai sentimenti, attaccato ossessivamente alla sua “roba”, detestato e invidiato, per la rapida ascesa sociale, tanto dal basso ceto da cui proviene, quanto dalla nobiltà del paese che lo annovera tra i propri ranghi.

Un libro che mette in risalto due opposte visioni del mondo, due diverse realtà che si confrontano e si sfidano, senza mai trovare un punto d’incontro: da una parte la logica mercantile di un povero contadino che, diventato un ricchissimo proprietario terriero, tenta di emanciparsi socialmente, terrorizzato dalla paura di perdere la “roba” conquistata con tanta fatica e, dall’altra, l’ipocrisia e la superbia di una nobiltà di paese in declino, alla fine della sua parabola ascendente, corrosa da debiti e ipoteche.

Che dire: appare quasi anacronistica, oggi, la lettura di questo libro;  eppure, per comprendere meglio l’epoca in cui viviamo, a volte sarebbe necessario prendere le mosse proprio da certi testi letterari e dai fatti che raccontano, quei fatti scanditi in modo lento e ripetitivo dai tempi ciclici della natura, tanto che nell’arco di un’intera esistenza poteva capitare di non assistere a nessun tipo di cambiamento. Oggi, invece, i cambiamenti sono diventati inarrestabili grazie ai mezzi tecnologici che hanno determinato una compressione del tempo e dello spazio, imprigionando l’uomo moderno in un eterno presente che lo rende incapace, tanto di trarre insegnamento dagli errori e dalle virtù del passato, quanto di immaginare un futuro migliore. E allora, mi piace pensare che nel leggere Mastro Don Gesualdo – visto che è ancora presente nei programmi scolastici – gli studenti sappiano cogliere dalla tragedia umana ed esistenziale di questo antieroe della nostra letteratura che aveva affidato il suo riscatto sociale alla ricchezza, quel messaggio non scritto che però aleggia tra le pagine del libro, ossia: la felicità di un uomo non si può acquistare e la bramosia di possesso (l’accumulo di “roba” per Mastro Don Gesualdo) è sempre fonte di tensioni perché suggerisce una visione del mondo e della società distorta.


venerdì 8 marzo 2024

Un eremo non è un guscio di lumaca

 


Quando si pensa all’eremita, inevitabilmente affiorano alcuni pregiudizi duri a morire: si ritiene che il soggetto sia un asociale, che abbia paura della vita e allora non fa che chiudersi nel suo guscio, al riparo dalle difficoltà e dal mondo. Ma non è così. Scrive Adriana Zarri – teologa e scrittrice morta alcuni anni fa – in un suo libro che si intitola “Un eremo non è un guscio di lumaca” che un eremita “non è un misantropo inavvicinabile, non è nemmeno necessariamente un recluso che non possa, di tanto in tanto, muoversi e incontrarsi con la gente, che non possa soprattutto ricevere chi venga a condividere qualche ora della sua solitudine e a fargli dono della sua amicizia. L’eremita è semplicemente uno che sceglie di vivere da solo perché nella solitudine ha il suo momento privilegiato d’incontro”. Ecco, l’incontro si può avere solo in solitudine: l’incontro con gli uomini, l’incontro con sé stessi, l’incontro con Dio e con la preghiera (per chi crede) e l’incontro con la scrittura. Si, perché quando si scrive, e di conseguenza quando si legge, si sta in solitudine e, quindi, tanto la scrittura quanto la lettura sono attività eremitiche. 

Adriana Zarri era una donna libera che non aveva paura di esporsi a difesa delle sue idee e dei suoi principi. Non aveva mai praticato l’arrendevolezza: preferiva legare l’asino dove meglio credeva, anziché legarlo dove voleva il padrone. E, ad un certo punto della sua vita, decise di trasferirsi in una cascina sulle colline attorno ad Ivrea e di vivere da eremita, raccontando questa sua esperienza esistenziale in questo libro molto intenso. Il suo intento era quello di contestare, in qualche maniera, il nostro mondo che si fonda essenzialmente sull’ arrivismo e sul carrierismo, che predilige gli arrampicamenti sociali, calpestando magari i diritti delle classi più deboli. Ma desiderava anche sottolineare che, oggigiorno, alcuni valori sociali sembrano completamente dimenticati come il silenzio, il rispetto della natura e la preghiera, intesa - per un non credente – quale momento di ascolto interiore. Per la Zarri un eremo non è un guscio di lumaca: e lei non vi si era rinchiusa, ma aveva solo scelto di vivere in piena libertà, lontana dal clamore, lottando contro quella falsa retorica dello “stare insieme”, che vede i solitari come persone individualiste, nemici del vivere sociale. Ma il singolo, affinché possa acquistare una sua autonomia di pensiero e di giudizio che gli consenta di inserirsi nella comunità senza “affogarvi dentro”, ha bisogno di uno spazio di silenzio che gli permetta di non essere plagiato dal gruppo e da quei persuasori occulti che oggi si annidano nei mass media. “Silenzio e solitudine sono valori ineludibili” affermava la teologa; ma la cosa più interessante è che in ciascuno di noi “c’è una valenza monastica che attende d’essere tratta in superficie e sviluppata secondo le varie vocazioni”. 

Consiglio vivamente questo libro a chi oggi va sempre di fretta; a chi è convinto che i soldi siano l’unico valore in cui credere; a chi pensa che la solitudine sia un isolamento e un tagliarsi fuori e non, invece, un vivere dentro, percorsa da voci e animata di presenze. Lo consiglio a chi si fa possedere dalla tecnologia e dalle cose, anziché possederle; a chi si lascia stordire dalla folla e dal rumore, dimenticando che il silenzio “contiene ogni possibile parola”. Lo consiglio a chi non ha mai coltivato l’ “otium”, come l’ha coltivato per tutta la vita questa grande testimone dei nostri tempi.




sabato 2 marzo 2024

Il realismo magico di Antonio Donghi

 


Qualcuno ha detto che è impossibile, se non irriverente, commentare e descrivere un’opera d’arte. Davanti a un dipinto o ad una scultura possiamo solo guardare e lasciarci guidare, prima ancora che dal nostro stato d’animo, dalle emozioni che proviamo. E le emozioni non si possono raccontare, vanno semplicemente vissute. La parola scritta appare incompleta, insufficiente, e rischia di sovrapporsi a quanto il dipinto o la scultura vogliono trasmetterci. A questo pensavo mentre mi aggiravo per le sale di Palazzo Merulana a Roma, dove è stata allestita una mostra dedicata ad Antonio Donghi, uno dei maggiori esponenti del cosiddetto “realismo magico”, uno stile pittorico tra fantasia e realtà.



Questo artista mi affascina molto per le sue immagini inafferrabili e a volte indecifrabili, per le sue figure avvolte nel silenzio, sospese nell’attesa e nel mistero che sembrano inseguire una sorta di “incanto esistenziale”, per dirla con le parole dello storico dell’arte Bernard Berenson. Icone morbide e aggraziate, comunicano con la loro postura quasi ieratica, una bellezza taciturna e solenne. E ci osservano, chiuse nel loro mondo fuori dal tempo.

Il realismo magico di Antonio Donghi – scrive il curatore della mostra Fabio Benzi – è “intriso di una dimensione tutta romana, per la luce immobile di pomeriggi tiepidi, per la rilassatezza di pose e scene, per l’aria scanzonata di alcuni personaggi, che non sai se ti fissano severi o stanno scherzando, per l’ambiguità di fondo”.



lunedì 26 febbraio 2024

Diario siciliano: alla ricerca della felicità perduta

 


Amo leggere i grandi narratori siciliani del passato. Sono quelli provenienti dalla “provincia intelligente”, per usare una espressione cara a Leonardo Sciascia, che hanno fatto la storia della letteratura del nostro Novecento. E poi sono spariti, relegati nel dimenticatoio dall’esercito dei nuovi romanzieri di successo, i moderni interpreti e cantori del mondo attuale. Tra questi scrittori dimenticati c’è sicuramente Ercole Patti, il cui percorso umano e letterario si svolse tra Catania (dove nacque nel 1903) e Roma, che lo accolse e lo celebrò giovanissimo e dove si spense nel 1976. Grande amico di Vitaliano Brancati – altro figlio illustre di quella “provincia intelligente” - seppe descrivere mirabilmente nei suoi libri quella sicilianità che forse non esiste più, quel mondo dove la vita scorreva lenta, sonnacchiosa, monotona, noiosa...e dolce. Così dolce, ebbe a scrivere lo stesso Ercole Patti in un suo romanzo "che si poteva invecchiare senza accorgersene e ritrovarsi ad averla vissuta tutta senza averne avuto coscienza, rimanendo sempre figli di famiglia. Questo era il dolcissimo veleno di Catania".

Cercavo, da molto tempo, un suo libro che si intitola “Diario siciliano”: una raccolta di brani scritti in momenti diversi - molti dei quali pubblicati in più giornali del passato - e assemblati in un unico volume nel 1971, libro che non viene più stampato. E dove potevo trovarlo se non sul banchetto di un mercatino dell’usato? Devo dire che, nell’acquistarlo a soli tre euro, ho provato la stessa gioia che avverte un bambino nel ritrovare un giocattolo che credeva perduto per sempre.



“Diario siciliano” è un “viaggio autunnale compiuto a ritroso”, come lo definì l’autore, il quale contiene una trentina di racconti brevi autobiografici, scritti in forma diaristica tra il 1970 e il 1931. E’ una narrazione, questa – come peraltro il genere epistolare – che io considero di grande spessore letterario e che permette, all’autore prima ancora che al lettore, di soddisfare quell’estremo bisogno di tornare indietro nel tempo per riacciuffare, con la memoria, barlumi di felicità perduta. E questo libro di Ercole Patti, dalla prosa gradevole e armoniosa imbevuta di dolce malinconia, ne è la felice testimonianza. Attraverso il filtro incantato e poetico della sua scrittura, lo scrittore siciliano riesce a dare vita e voce a paesaggi, sentimenti, persone, odori, oggetti e gesti di un mondo scomparso. Vergati a ritroso, dagli anni più recenti a quelli della sua giovinezza, questi brevi capitoli del Diario sono come tasselli di un puzzle attraverso il quale l’autore sembra voler stemperare le proprie amarezze, la propria nostalgia e ricercare - per sé e per il lettore - quella felicità perduta.

Ecco, allora, la descrizione minuziosa degli oggetti che ci sono in un'antica casa di campagna, quel vecchio portone sprangato che evoca ricordi, il limone che cresce nell’orto i cui rami sfiorano il davanzale, l’antico uliveto che sorge tra rocce di lava secolare sulle pendici dell’Etna, dove fioriscono erbe selvatiche, ginestre e macchie di capperi; e poi l’odore inconfondibile e forte del frantoio, quello intenso delle olive macinate che piglia alla gola con una forza inebriante; il silenzio e la frescura dei paesetti che circondano le pendici dell’Etna immersi in un grande languore, in un dolcissimo letargo; e poi il suo amato paesino dell’infanzia – Pozzillo – tra Acireale e Catania, carico di agrumi e di olivi che si affacciano sui muretti a secco che costeggiano le strade; e il silenzio degli ulivi che si unisce al silenzio del mare che appare calmo e luminoso in fondo alle brevi stradine laterali che finiscono all’improvviso fra gli scogli; e ancora la vecchia credenza restaurata da cui emana un odore di lontana vita familiare e di affetti e che ricorda l’aria felice dei tempi dell’infanzia; il piccolo orto, attraverso il quale si entrava nella vigna; le fresche mattinate di ottobre, quando scendeva, ancora in pigiama, lungo i viottoli, tra le viti cariche d’uva ancora appannata dalla brina notturna; il ricordo struggente di quel bambino che, durante le mattinate d’estate a Catania - seduto tra la cameriera e la madre - allungava il collo per vedere l’arrivo della carrozza della ragazzina che amava, e che avrebbe incontrato sulla spiaggia; le strade di Catania piene di balconi in ferro battuto, ai quali Verga faceva affacciare i suoi personaggi nelle sere delle processioni; l’eterno passeggio pomeridiano in via Etnea, con i suoi marciapiedi consumati da un secolare strascicare di piedi… atmosfere,  queste, di un mondo, descrizioni di oggetti, di immagini, di odori, di colori, di paesaggi, di sensazioni che assurgono a protagonisti assoluti del libro, si confondono nella mente dello scrittore siciliano e diventano “l’espressione più alta della felicità”.


lunedì 19 febbraio 2024

Ritrovarsi in un libro

 


Se è vero che noi siamo quello che leggiamo, come sostiene qualcuno (ma si potrebbe anche affermare che noi leggiamo quello che siamo), ebbene lo scrivente – che si rifugia quasi sempre tra le pagine di certi libri del passato (a volte anche dimenticati) – non può che ritrovarsi in questo assunto: se il libro che sto leggendo mi piace è perché la mia anima si specchia in quel libro, e l’autore che l’ha scritto è un mio illustre alter ego che mi consente di scorgere, tra le righe, quella parte di me che forse non avrei potuto conoscere se non lo avessi letto. Mi ritrovo in quel determinato testo piuttosto che in un altro, perché la mia identità di lettore, la mia filosofia di vita, coincidono con la visione del mondo che racconta quel libro. Posso anche leggere gli “altri”, come faccio sempre, ma se non mi soddisfano, se mi lasciano indifferente, se quelle pagine scritte non le sento mie e non si verifica tra me e loro quella condizione che Goethe avrebbe definito “affinità elettive”, io quei libri li abbandono inevitabilmente da qualche parte sui ripiani della libreria. E non mi vedranno mai più.

A pensarci bene i libri che amo leggere e rileggere – almeno fino a questo momento – e che in qualche maniera li abito e me li sento addosso come un vestito su misura, non sono poi tanti e credo che si riducano ad una cinquantina, forse largheggiando. E molti di essi, come ebbe a dire una volta Ennio Flaiano, hanno aspettato anni e anni prima di essere ripresi e riletti, in un giorno di particolare disgusto esistenziale. Ma è la loro forza perché, proprio quelli e non altri, hanno la straordinaria capacità di farti riappacificare con la lettura. E con la vita.


lunedì 12 febbraio 2024

Chiese chiuse

 

Chiesetta di S. Francesco - Roma Torrevecchia

Amo perdutamente le chiese, scrive lo storico dell’arte Tomaso Montanari nel suo saggio “Chiese chiuse” edito da Einaudi. Luoghi di serenità e di preghiera, dove solo in linea teorica è possibile distinguere la dimensione religiosa da quella culturale. Luoghi capaci di suggerire una diversa dimensione del tempo, un altro ritmo esistenziale: riposo dell’anima e del corpo, le antiche chiese offrono una pausa di riflessione alla nostra vita esagitata, al nostro caos interiore. E’ tale la bellezza di questi spazi che anche la loro rovina riesce ad esercitare su di noi una indefinibile seduzione estetica. E devo dire - per quanto mi riguarda - che non esiste passeggiata per il centro storico di Roma che non comprenda una sosta in una chiesa, anche per allontanarmi solo per un momento dallo schiamazzo esterno e respirare un po' di silenzio. E riposarmi, in contemplazione, davanti al dipinto di una madonna del Seicento. Indipendentemente dal sentimento religioso, chi entra in una chiesa antica non può non subirne l’influsso. Non può non rimanerne affascinato.

Nessuno sa esattamente quante siano le chiese in Italia: si stimano in circa 95.000 - scrive il prof. Montanari nel suo libro - e sono migliaia quelle inaccessibili, pericolanti, sconsacrate e saccheggiate. Non è frutto solo della secolarizzazione che avanza o della nostra incapacità di preservare il patrimonio artistico e culturale, ma c’è qualcosa di più profondo che riguarda l’idea stessa di società che stiamo costruendo, sempre più orientata al profitto, all’evento mediatico, al sensazionalismo. “Il patrimonio è al sicuro – sostiene Montanari – finché è frequentato, amato, conosciuto: le chiese si aprono ai ladri, quando si chiudono ai cittadini”. Purtroppo noi, oggi, siamo martellati da un marketing maldestro e spietato che ci spinge ad essere clienti e turisti piuttosto che cittadini responsabili. Facciamo la fila per visitare l’ultima mostra a pagamento e non entriamo nella chiesa che si trova all’angolo, che spesso custodisce opere di altissimo valore storico ed artistico. E’ in atto una crescente mercificazione del nostro patrimonio culturale pensato non per aumentare la conoscenza e la sensibilità, non per una funzione educativa, ma per intrattenere e saziare un pubblico sempre più povero culturalmente. E sono sempre di più le antiche chiese che vengono chiuse ed alienate a privati, destinate poi - secondo logiche aziendalistiche - ad attività economiche ambitissime dall’industria dei matrimoni civili. Certo, niente vieta - scrive sempre Montanari - che nelle chiese si possano tenere concerti o conferenze o declamare poesie, insomma attività culturali: ma non a pagamento e senza snaturarne la dimensione spirituale.

In Italia, sono circa un centinaio le chiese monumentali cui si accede pagando, e moltissime altre prevedono biglietti per ambienti accessori, quali chiostri, sacrestie, campanili, cripte…ma una chiesa a pagamento non è più una chiesa, ma non diventa per questo un museo o una mostra. Le chiese sono sempre state – scrive Montanari – una sorta di “prosecuzione delle piazze…luoghi pubblici in cui entrare anche senza un perché. Perché fuori piove, o fa troppo caldo, per parlare con un amico in un giorno freddo, per rivedere un quadro o la curva di un arco che ci è caro. Luoghi intimi, spazi di respiro e riposo mentale per tutti noi che ci siamo cresciuti dentro: pezzi di una casa che ci ha dato forma e che potrebbe continuare a darcela. Un’esperienza unica, questa comunione con le antiche chiese: un’esperienza che di fatto i nostri figli non potranno avere”.

Di chi la colpa? si chiede il professor Montanari. Colpa di tutti i governi che hanno tagliato e continuano a farlo, i fondi per la manutenzione del patrimonio artistico. Colpa dei tanti proprietari delle chiese,  spesso non facili da identificare: dalla Santa Sede alle diocesi, dalle parrocchie agli istituti religiosi, dallo Stato alle Regioni…Colpa anche di un giornalismo servile capace solo di lodare il potente di turno per poi stupirsi che crollano i ponti e le chiese. Ha scritto Kant (citazione presente nel libro): “tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito da qualcos’altro a titolo equivalente; al contrario, ciò che è superiore a quel prezzo e che non ammette equivalenti, è ciò che ha una dignità”. Poter entrare, gratis, in una chiesa che custodisce bellezza è una cosa che ha una sua dignità. E sarebbe davvero intollerabile e blasfemo cancellare.



lunedì 29 gennaio 2024

Scrivere: un atto di vanità

 


Se ci soffermassimo a riflettere, con la dovuta attenzione, sui flussi di parole che inondano quotidianamente la nostra esistenza, capiremmo che il mondo non ha assolutamente bisogno delle nostre parole scritte. Sono già troppe quelle esistenti e niente possiamo aggiungere su ciò che è stato già detto da persone molto più autorevoli di noi, del presente e del passato. E’ come quando si entra in una grande libreria dove sono assiepati migliaia e migliaia di testi: ma chi mai dovrebbe comprare e leggere un nostro libro qualora decidessimo di scriverlo? Eppure, tutto questo non ci spaventa, non ci scoraggia e non ci fa desistere da questa attività che resta, nonostante tutto, tra le più nobili dell’animo umano. Mai come in questa nostra epoca ci siamo affidati in maniera così ostinata alla parola scritta, invogliati soprattutto dagli strumenti on line messi a disposizione dalla tecnica.

“Ho scritto poco – amava ripetere Cristina Campo – e mi piacerebbe aver scritto meno”. Un modo per attestare che la scrittura è una cosa seria che implica responsabilità civile, fatica, rispetto. E forse nessuna come lei rispettava le parole almeno quanto noi, sempre più spesso, le maltrattiamo. E poi aggiungeva: “se qualche volta scrivo è perché certe cose non vogliono separarsi da me come io non voglio separarmi da loro. Nell’atto di scriverle esse penetrano in me per sempre – attraverso la penna e la mano – come per osmosi”. Ma esiste questa fusione anche nel nostro scrivere? Le parole che usiamo hanno la forza di penetrare in noi e rimanerci? Diciamocelo: oggi usiamo la scrittura soprattutto per interagire con gli altri, quasi in tempo reale, attraverso i social. E’ un modo di scrivere istantaneo, frammentato - come il parlare – che non ha nulla a che spartire con un pensiero ponderato, riflessivo e profondo. Insomma, una scrittura liquida, scivolosa, che non lascia alcuna traccia importante né in chi scrive e tanto meno in chi legge.

Pare che il blog, invece, sia una forma espressiva superiore e di nicchia che ricorda - con i suoi testi brevi ed equilibrati - il diario o la lettera di antica memoria (anche se oggi nessuno si sognerebbe di scrivere una lettera come si faceva un tempo). Ma se il diario e la lettera sono strumenti privati che si rivolgono ad un solo destinatario, ad un solo lettore – anche se poi alcuni di questi testi sono diventati di dominio pubblico, epistolari famosi di alto valore letterario -  il post di un blog è indirizzato, invece, a tutti coloro che vi si imbattono per caso. E’ di tutti e di nessuno. Ma allora, se non ho un destinatario preciso e circoscritto, perché sento questo bisogno di scrivere e diffondere il mio messaggio in rete? E qui si potrebbe aprire un dibattito infinito dove ognuno esprimerebbe la propria motivazione.

 Io penso che tutte le convinzioni che spingono una persona a scrivere siano accomunate da un solo sentimento: la nostra vanità. Se fosse una merce in vendita, la vanità, andrebbe a ruba nonostante ne siamo tutti muniti, sia pure in diversa misura. E’ inutile girarci intorno: scrivere è un atto di vanità; è voler essere letti. Se nessuno ci legge non esistiamo. E noi vogliamo esserci in questo mondo. Vogliamo lasciare una traccia. E’ un sentimento così radicato nell’animo umano che ciascuno di noi desidera, in qualche maniera, essere ammirato e applaudito per ciò che scrive. Non metteremmo in rete un post, per il solo piacere di scrivere, se non avessimo la certezza che qualcuno prima o poi lo leggerà: fosse anche una sola persona. Ed è proprio questa persona sconosciuta la molla che ci spinge a farlo. Altrimenti basterebbe un quaderno su cui appuntare i nostri pensieri. Ma parlare ad una folla è molto più gratificante che parlare solo a sé stessi. Ti fa sentire importante. Ti fa immaginare che c’è qualcuno nella blogosfera che sta lì in attesa del tuo ultimo post.

Diceva una volta un filosofo che non affronteremmo un viaggio in mare per il solo piacere di vedere, senza speranza di poterlo mai raccontare. Scriviamo per gli altri, a cui vogliamo sempre insegnare qualcosa, ma non abbiamo nessuna intenzione di apprendere nulla da loro. Siamo tanto sensibili alle opinioni favorevoli che vengono espresse su di noi, quanto poco interessati a quello che gli altri dicono di sé stessi. In altre parole – miei cari amici blogger - la vanità degli altri proprio non la sopportiamo, attratti come siamo dalla nostra.


sabato 20 gennaio 2024

Pontiggia: chi l'ha visto?

 


“Spesso, quando si cerca di convincere gli altri, si tenta solo di placare i propri dubbi; e non c’è da stupirsi se si fallisce in entrambi gli intenti”


Mentre leggevo “La grande sera”, un romanzo di Giuseppe Pontiggia, mi veniva da pensare che quasi tutti i miei scrittori preferiti sono morti. E spesso dimenticati dagli editori prima ancora che dai lettori. Da Michele Prisco a Giovanni Arpino, da Ercole Patti a Luciano Bianciardi, da Raffaele La Capria a Vitaliano Brancati, da A. Maria Ortese a Lalla Romano – tanto per fare alcuni nomi, ma la lista è davvero lunga – sembra quasi che le mie letture siano legate ad una tomba. Come se la morte dell’autore potesse imprimere una sorta di sigillo di garanzia o un alone di grandezza su quelle opere letterarie che mi sono più congeniali. Senza negare, tuttavia, che certi scrittori passati a miglior vita appaiono, oggi – per la loro statura morale e artistica - molto più vivi dei vivi. Vista la distanza davvero incolmabile che passa tra le opere dei primi (i morti) e quelle dei secondi (i vivi).

Considero Giuseppe Pontiggia, scrittore lombardo morto una ventina di anni fa, la new entry in questa mia particolare e amata classifica. “La grande sera”, forse il suo libro più importante, l’ho scovato sul banchetto di un mercatino dell’usato. Conoscevo per sentito dire il nome di Giuseppe Pontiggia, ma non avevo ancora letto niente di suo. Questa lettura è stata, per me, davvero una piacevole sorpresa.

La vicenda del romanzo è estremamente semplice ed essenziale: in un pomeriggio estivo, in una Milano di qualche anno fa, un affermato professionista sparisce all’improvviso senza lasciare alcuna traccia. Oggi, probabilmente, se ne occuperebbe “Chi l’ha visto” che – guarda caso – è la storica trasmissione televisiva di RAI 3 che nasce nel 1989, l’anno in cui il libro fu pubblicato aggiudicandosi il premio Strega. L’assenza, congiuntamente all’attesa sono i due temi del romanzo, la cui vicenda riguarda non tanto la storia del protagonista che si è dato alla fuga quanto quella degli “altri” che ruotano intorno a lui e che reagiscono, in maniera diversa, alla scomparsa: la moglie, l’amante, il fratello, la cognata, il nipote, il socio d’affari. “Forse era stanco di definire insensata la propria vita come si fa solo per poterla accettare, e si era preso improvvisamente un giorno insensato”. Di fronte a questa oscura sparizione, emerge il carattere molto discutibile dei vari personaggi, ognuno avvolto nella propria ipocrisia, nelle proprie amarezze e delusioni e si scopre tutta la pochezza dei sentimenti da cui gli stessi sono animati. Sembra quasi che il protagonista scomparso riesca finalmente a disvelare i sotterfugi, le menzogne, le cose non dette e non fatte, il vuoto esistenziale delle loro vite poco esaltanti. E a mettere in luce ambizioni e rinunce, incertezze e falsità e ambiguità relazionali fino ad allora occultate. L’assente che smaschera la fuga dei presenti dalle loro responsabilità. E mentre cercano senza troppe convinzioni lo scomparso, costoro si rispecchiano in quell’assenza e finiscono per cercare sé stessi.

Con uno stile misurato e preciso, non privo di appuntite divagazioni ironiche sulla psicologia dei vari personaggi e con un’abbondanza di aforismi che impreziosiscono la narrazione e la rendono più profonda, Pontiggia ci restituisce il piacere della lettura. Come solo i grandi sanno fare.


venerdì 12 gennaio 2024

Stazione Termini

 


Sono appena sceso da un treno alta velocità “Frecciargento” di Trenitalia: rientro nella Capitale dopo molti giorni trascorsi nella mia casetta al paese. Il mio buen retiro. Ad accogliermi (si fa per dire) è la stazione Termini, “luogo non luogo” per antonomasia secondo l’antropologo francese Marc Augè, che ha coniato questo neologismo valido anche per gli aeroporti, gli autogrill e altri luoghi simili. L’impatto, per uno che viene da un paesello dove il tempo sembra essersi fermato e dove non esistono assembramenti è, a dir poco, traumatizzante. E devo dire che sebbene io sia vaccinato a questi contrasti, ogni volta avverto la stessa sensazione di straniamento.

La stazione Termini è diventata una sorta di centro commerciale dove, però, arrivano e da cui partono anche i treni. E’ un luogo nel quale manca ogni riferimento storico e identitario, uno spazio di passaggio per migliaia di individui che si incrociano senza mai entrare in relazione tra di loro; un luogo di consumo, da cui si parte per assolvere quell’intimo desiderio personale – ma anche quell’obbligo sociale (se non fai una settimana alle Seychelles non sei nessuno) - del viaggiare, sempre più orientato dalle riviste specializzate e dalle agenzie turistiche, che consigliano mete sollecitando desideri e sogni di evasione.

Per motivi diversi, di svago o di necessità, non riusciamo e forse non vogliamo più stare fermi nello stesso posto. Mi vengono in mente le parole di Blaise Pascal che riecheggiano nei suoi Pensieri e che sembrano rivolgersi all’uomo d’oggi, sempre più smanioso di partire, di andare “…tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non saper restare tranquilli in una stanza…per questo gli uomini amano tanto il rumore e il trambusto…per questo il piacere della solitudine è una cosa incomprensibile”. Dobbiamo muoverci, viaggiare, spostarci a velocità supersonica da un punto all’altro della Terra con tutte le conseguenze che ciò comporta: inquinamento ambientale, distruzione del territorio e…coronavirus, diffuso proprio per via della vita frenetica e convulsa che tutti noi conduciamo. La condizione del vivere non è più legata intimamente al territorio. Il viaggiare, la fusione culturale, la facilità di muoversi, la creazione di grandi spazi urbanizzati e anonimi e non classificabili uguali gli uni agli altri, hanno finito con il produrre una separazione tra l’uomo e il territorio in cui abita, uno scollamento irreparabile tra l’uomo e la natura.

Osservo quella moltitudine assiepata nella stazione Termini (di cui anch’io faccio parte), munita di  trolley simili a vagoni ferroviari, brulicante e rumorosa come un alveare e mi sento isolato. Spaesato. E’ la solitudine che nasce non dall’essere soli ma dall’essere tanti in un luogo non luogo che avvolge tutti senza riferimenti identitari, circondati da immensi cartelloni pubblicitari e decine di monitor che proiettano, senza sosta, immagini di un mondo irreale, mentre i rumori di fondo, assordanti, disorientano e avviliscono. E’ incredibile come a volte l’impatto con un luogo possa farti piombare, all’improvviso, in una sorta di girone infernale e farti sentire a disagio. Avevo lasciato alle spalle altri paesaggi, altri riferimenti: il profilo di una collina, un bosco al limitare di una vigna, i rintocchi di una campana, un ritmo di vita lento e umano. E poi il silenzio, il grande assente in un luogo come la stazione Termini di Roma. Mi guardo in giro, ma non vedo smarrimenti di sorta, tutti sembrano sicuri e tranquilli, a proprio agio, indifferenti al rumore, alla frenesia che serpeggia nel luogo. Solo due persone anziane, dall’aria preoccupata – probabilmente marito e moglie – con la loro valigetta d’altri tempi si guardano intorno smarriti cercando  di trovare una via d’uscita in quella babele. Mi si avvicinano ansiosi come due pesci fuor d’acqua – forse perché sono l’unico che non sta al cellulare e non corre in maniera forsennata - per chiedermi del treno per Roccasecca. Li osservo con dolcezza e mi domando come possano trovarsi lì, da soli, in quella bolgia che scalpita. E mentre li indirizzo verso il treno per Roccasecca - la loro salvezza – mi ringraziano riconoscenti e mi dicono che il mondo a cui appartengono non esiste più. Loro sono gli ultimi superstiti. Queste parole mi colpiscono. E se, invece, fossimo tutti noi dei superstiti, in questo mondo?


sabato 16 dicembre 2023

L'altro Natale

 


Se c’è una festa che arriva sempre in anticipo rispetto alla sua data, ebbene questa festa non può che essere il Natale. Luminarie, panettoni e negozi pavesati a festa si cominciano a vedere già verso la fine di ottobre. E’ la ricorrenza che più di tutte celebra quell’allegria artificiale tanto al chilo, che non ha nulla a che spartire con il Natale cristiano che celebra il rito della Natività, espressione della semplicità e della povertà. Tutto sembra artefatto: pure i pastori e i re magi nei presepi hanno, oramai, le sembianze dei divi della televisione. Per quelli della mia generazione, il Natale era forse la festa più bella, quella più attesa, e quando arrivava veniva consumata rapidamente con intensità, allegria e commozione, sia dai bambini che dagli adulti. Per i cristiani era la nascita di Gesù Bambino, per chi non credeva il Natale rappresentava, comunque, un evento straordinario, da vivere con lo stesso spirito sacrale. Oggi, il Natale è una festa come tutte le altre: l’ennesimo rito commerciale, l’ennesima overdose di consumi. Non esiste più l’attesa del Natale.

A volte mi mancano le parole per descrivere certi avvenimenti, o meglio non hanno la giusta autorevolezza, e allora quale migliore occasione per affidarsi alle parole dei grandi maestri della letteratura i quali hanno sentito la necessità di esprimere il loro pensiero sul Natale, ognuno secondo il proprio credo ed i propri sentimenti. Tra questi, Erri del Luca, uno scrittore che io stimo tantissimo per la sua scrittura potente ed evocativa. Così descrive il suo Natale:

“Nello scasso profondo dei nuclei familiari Natale arriva come un faro sui cocci e fa brillare i frantumi. Si aggiungono intorno alla tavola apparecchiata sedie vuote da tempo. Per una volta all’anno, come per i defunti, si va in visita al cerchio spezzato.
Natale è l’ultima festa che costringe ai conti. Non quelli degli acquisti a strascico, fino a espiare la tredicesima, fino a indebitarsi. Altri conti e con deficit maggiori si presentano puntuali e insolvibili. I solitari scontano l’esclusione dalle tavole e si danno alla fuga di un viaggio se possono permetterselo, o si danno al più rischioso orgoglio d’infischiarsene.
Ma la celebrazione non dà tregua: vetrine, addobbi, la persecuzione della pubblicità da novembre a febbraio preme a gomitate nelle costole degli sparpagliati. Natale è atto di accusa. Perfino Capodanno è meno perentorio, con la sua liturgia di accatastati intorno a un orologio con il bicchiere in mano. Natale incalza a fondo i disertori.
Ma è giorno di nascita di chi? Del suo contrario, spedito a dire e a lasciare detto, a chi per ascoltarlo si azzittiva. Dovrebbe essere festa del silenzio, di chi tende l’orecchio e scruta con speranza dentro il buio. Converge non sopra i palazzi e i centri commerciali, ma sopra una baracca, la cometa. Porta la buona notizia che rallegra i modesti e angoscia i re.
La notizia si è fatta largo dentro il corpo di una ragazza di Israele, incinta fuorilegge, partoriente dove non c’è tetto, salvata dal mistero di amore del marito che l’ha difesa, gravida non di lui. Niente di questa festa deve lusingare i benpensanti. Meglio dimenticare le circostanze e tenersi l’occasione commerciale. Non è di buon esempio la sacra famiglia: scandalo il figlio della vergine, presto saranno in fuga, latitanti per le forze dell’ordine di allora.
Lì dentro la baracca, che oggi sgombererebbero le ruspe, lontano dalla casa e dai parenti a Nazareth, si annuncia festa per chi non ha un uovo da sbattere in due. Per chi è finito solo, per il viandante, per la svestita sul viale d’inverno, per chi è stato messo alla porta e licenziato, per chi non ha di che pagarsi il tetto, per i malcapitati è proclamata festa. Natale con i tuoi: buon per te se ne hai. Ma non è vero che si celebra l’agio familiare. Natale è lo sbaraglio di un cucciolo di redentore privo pure di una coperta. Chi è in affanno, steso in una corsia, dietro un filo spinato, chi è sparigliato, sia stanotte lieto. È di lui, del suo ingombro che si celebra l’avvento. È contro di lui che si alza il ponte levatoio del castello famiglia, che, crollato all’interno, mostra ancora da fuori le fortificazioni di Natale”.

 


sabato 9 dicembre 2023

Quanto ad essere felici

 


“Quanto ad essere felici, questo è
il terribilmente difficile, estenuante.

Come portare in bilico
sulla testa una preziosa pagoda,
tutta di vetro soffiato, adorna di campanelli
e di fragili fiamme accese;
e continuare a compiere ora per ora i mille
oscuri e pesanti movimenti della giornata
senza che un lumicino si spenga, che
un campanello dia una nota turbata”.

Cristina Campo


sabato 2 dicembre 2023

Ho imparato...

 


… che scrivere è un atto di responsabilità perché le parole scritte possono diventare – in qualsiasi contesto – carezze o pugnali e possono causare gioie o dolori e vanno usate, pertanto, con molta cura;

ho imparato che i libri non sono tutto nella vita, e se la vita non ti cammina a fianco non puoi cercarla in un romanzo, fosse anche il più bello;

ho imparato che gli anni che passano li puoi scorgere meglio sul volto di un tuo coetaneo che non vedi da molto tempo, anziché sul tuo che osservi tutti i giorni allo specchio;

ho imparato che a volte l’intelligenza emargina, e che per essere felici in questo mondo bisogna essere anche un pò stupidi;

ho imparato che la compagnia di un amico è una cosa rara e non la si può comprare su Internet né la si può trovare su Facebook; però ho anche imparato che si può stare in ottima compagnia pur rimanendo da soli;

ho imparato che la vigilia è migliore della festa e che il piacere si nasconde nell’attesa;

ho imparato che il potere, in tutte le sue innumerevoli declinazioni, è sempre deprecabile e che discutere con un idiota che si crede potente è una battaglia persa;

ho imparato che quelli che parlano da soli – ad alta voce – e gesticolano in maniera concitata per strada, non sono dei matti – come quelli che si vedevano in giro una volta – ma “sani di mente” al cellulare;

ho imparato che quando un’opinione viene ampiamente elogiata da una maggioranza, non vuol dire affatto che non sia completamente sbagliata;

ho imparato che, oggi, il passato viene frettolosamente liquidato come un male assoluto, per nascondere meglio l’insostenibile pesantezza del presente;

ho imparato che la tecnologia non è la panacea di tutti i mali e che si può vivere, bene, anche senza uno smartphone;

ho imparato che in una guerra i militari che si fronteggiano con le armi sono tanto pericolosi quanto quelli che indossano l’elmetto nei salotti televisivi;

ho imparato che una menzogna, ripetuta all’infinito, può diventare una pericolosa verità;

ho imparato che il sacro si può anche trovare in un luogo che evochi la povertà piuttosto che la ricchezza, la contemplazione piuttosto che la meraviglia;

ho imparato che per guardare la morte con occhi meno spaventati bisogna osservare la vita con più leggerezza;

ho imparato…


mercoledì 22 novembre 2023

TG e Talk, l'indotto del dolore

 


Siamo inondati di cattive notizie, sempre più drammatiche e angosciose. In particolare, i media danno grande risalto ai fatti di sangue e continuano a proporre giorno dopo giorno – con dovizia di particolari a volte scabrosi – storie di dolori e di tragedie familiari. E’ un modo di fare informazione, questo, che non mi piace. Sottoscrivo, qui di seguito, l’articolo di Nanni Delbecchi apparso oggi su “Il fatto quotidiano”:

“Oltre ad aggiungersi alla terribile serie di donne uccise dai loro stalker, l’omicidio di Giulia Cecchettin passerà alla storia della TV, in particolare dell’informazione televisiva. Mai era accaduto che un singolo delitto diventasse la prima notizia del giorno, quasi l’unica, d’un tratto tutte le testate mutate in un coro di prefiche. Dal Pensiero Unico all’Epicedio Unico. Lunedì sera si è occupato dell’omicidio Cecchettin più di un terzo dell’intero del Tg1, oltre 12 minuti; ancora più lunga la durata del Tg5, circa la metà del notiziario. Pare che al mondo accada anche altro, ma sono quisquilie: le trattative sugli ostaggi a Gaza valgono una manciata di secondi, ancora meno quelli dedicati al conflitto ucraino (Zelensky chi?). In compenso su Giulia nulla è trascurato dai potenti mezzi del tg. Nugoli di microfoni assediano il procuratore di Venezia: si vuol sapere in diretta quali capi d’imputazione, quanti giorni, minuti e secondi ci vorranno per l’estradizione di Filippo (fermate le rotative). Un inviato del Tg1 è spedito nottetempo davanti al carcere di Halle: “Vedete, Turetta ha passato qui la sua seconda notte” (rifermate le rotative). Il Tg5 raduna alcuni psicologi da salotto che ci spiegano tutto dell’assassino: “Non é un raptus, questi gesti si premeditano”; “Filippo voleva tornare con Giulia, ma era anche invidioso dei suoi studi” (Bloccate definitivamente le rotative). Poi, i volti rigati di lacrime, le ispezioni cadaveriche, il censimento delle coltellate…il trionfo della cronaca nera sull’informazione, grande classico di ogni regime, con i suoi manti funebri a coprire ogni accadimento. E la tv del dolore spacciata per notizia, la merce più ghiotta per lo share che per la prima volta esonda da ballatoi pomeridiani e presidia i tg. E vai con l’indotto del dolore: politici e opinionisti pronti a offrire il loro profilo migliore per aprire il dibattito sul patriarcato, sul satanismo, sulla cultura dello stupro. La morte sarà di destra o di sinistra? Ci siamo dimenticati di domandarlo a Gaber, ma l’impressione è che tenda al campo largo”.

Nanni Delbecchi


venerdì 10 novembre 2023

Non si resta e non si parte mai del tutto

 


Ho letto molti libri di Vito Teti, un antropologo calabrese che si occupa di letteratura dei luoghi, argomento di cui sono estremamente appassionato. E’ diventato il mio punto di riferimento e sebbene i suoi testi raccontino, in modo particolare, i paesi della Calabria, trovo che gli stessi siano un valido punto di osservazione e di aiuto per conoscere e capire fenomeni di portata universale.

In questo suo ultimo saggio che si intitola “La restanza” (Einaudi), Teti ritorna su quelle tematiche a lui care come la ricerca d’identità attraverso il luogo nativo, l’emigrazione, l’antropologia dei paesi. Egli dice che noi siamo il luogo in cui siamo nati e cresciuti e siamo il luogo che abitiamo e da cui a volte fuggiamo, per necessità. E siamo il luogo che percorriamo e raccontiamo. Restare o partire non è mai una decisione che si prende a cuor leggero, senza incertezze e lacerazioni, perché un luogo è un insieme di relazioni umane, di affetti, di legami talvolta incerti e mutevoli, seppure fondamentali. Il luogo, oltre ad occupare una posizione geografica, è innanzitutto una costruzione culturale e antropologica di immagini, di vita e di racconti che abbiamo ereditato, è condivisione e partecipazione con chi ci vive e con chi ci torna saltuariamente, ma anche con chi lo ha abbandonato per sempre, a causa di migrazioni e di eventi naturali funesti come terremoti, frane, alluvioni.

Ognuno vive e resta in un luogo - paese o città che sia – eppure “restare in paese”, oggi, è percepito come un modo antiquato di stare al mondo, seppure complementare a quella visione neoromantica che celebra, invece, la retorica di un mondo salvifico da cercare proprio nel paese. Ci vorrebbe una più accorta antropologia dei luoghi, sostiene Vito Teti nel suo libro, capace di immaginare e decidere un diverso modello di sviluppo, “un nuovo patto sociale e valoriale tra quelli che restano e quelli che partono, tra quelli che tornano e quelli che arrivano”.

Bisogna capire – ribadisce Teti – che i piccoli borghi non migliorano e non si rilanciano con gli slogan, non si rivitalizzano con espedienti pubblicitari come l’arrivo di qualche personaggio famoso, o con proposte occasionali come la ristrutturazione di qualche casa con piscina, ma creando condizioni essenziali per consentire a chi vuole restare di rimanere nel suo paese, per favorire il ritorno a chi è andato via e per ospitare chi ha maturato la scelta di vivere in un paese, lontano dai rumori e dallo smog. Far vivere un paese significa ricostruire dei veri legami comunitari, ma questo non si ottiene attraverso la vendita “a un euro” delle case abbandonate dai proprietari. Per Vito Teti è una scelta devastante, questa, perché restituisce l’idea che quella casa non ha nessun valore, e significa quindi svalutare il prezzo delle case dei residenti che hanno continuato a vivere nel paese. Insomma, è come svendere la memoria di una comunità.

Come tutti i libri di Vito Teti, anche questo ripercorre, con una scrittura intima e poetica, alcuni suoi momenti autobiografici costringendo il lettore ad interrogarsi sul proprio modo di vivere il tempo e di abitare uno spazio, che sia un paese o una città. Così scrive: “Vivo nella casa in cui sono nato…e dove sono sempre tornato. Da fuori arrivavano le voci dei bambini che giocavano e i passi, i rumori, delle donne, degli uomini, degli asini, delle caprette che tornavano dalla campagna. Oggi arriva il silenzio senza colore. Il balcone si affaccia sulla ruga, dentro il paese, sul pieno di un tempo e sul vuoto di oggi. Anche se tutto è cambiato, tutto è riconoscibile ed in questa persistenza si consumano il paradosso e lo stigma del disfacimento. (…) Nel mondo da cui provengo e a cui sono rimasto fedele, magari a costo di qualche tradimento, ho imparato il valore della fatica, della solidarietà, delle piccole cose che più tardi ho scoperto, sui libri, essere il valore della polis, della comunità. Sono uno dei restanti più tenaci e resistenti tra quelli a me noti, anomalo, perché sono inquieto, amo viaggiare e cambiare spesso luoghi e contesti. Sono cresciuto a cavallo di tre generazioni e, contemporaneamente, nel crinale di due età, di due epoche, di due civiltà. In poco più di un trentennio ho vissuto diecimila anni, dalla nascita delle società agropastorali al loro inesorabile sparire. Incerto, irrequieto, sospeso, un tempo immaginavo che sarei vissuto in un mondo nuovo, nella modernità; nella frenesia di un tempo dinamico. Lo studio appassionato, il vortice delle letture e i viaggi mi hanno insegnato che il mondo antico dei padri non veniva davvero sostituito dal mondo nuovo dei figli, anche se tutto quel che resta del passato, dei ricordi, della vita è sempre più essenziale per orientarmi in questo universo fragile, insicuro, attraversato da un’idea di futuro sempre meno definita con l’aumentare delle mie consapevolezze”.



mercoledì 1 novembre 2023

Dieci anni di blog

 


445 post, oltre 3200 commenti, poco più di 157.000 visualizzazioni: questi sono gli attuali numeri del mio blog nato nel novembre del 2013, dieci anni fa. Non sono numeri straordinari se paragonati ad altri siti web, però ne sono ugualmente soddisfatto. Come scrissi nella mia presentazione, volevo “fermare il tempo” e non disperdere ciò che mi appartiene, condividendo pensieri, riflessioni, letture, divagazioni. E per soddisfare, forse, quell’intimo desiderio insito in ogni uomo che scrive: essere letto da qualcuno. Diceva Pavese che “è bello scrivere perché riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare a una folla”.

Mi domando, però, se abbia ancora un senso scrivere su un blog, consapevole del fatto che nella storia dell’umanità non si è mai scritto così tanto come nell’epoca che stiamo vivendo. Siamo letteralmente sommersi dalle parole, non sempre eccelse, e a volte mi chiedo quale importanza possano avere le mie.

Nel blog ho cercato di parlare dei libri che man mano andavo leggendo soffermandomi, in particolare, su quegli autori quasi dimenticati, prima ancora che dai lettori, dagli stessi editori: Giuseppe Berto, Lalla Romano, Ercole Patti, Michele Prisco, Giovanni Arpino, A.M. Ortese, Luciano Bianciardi, tanto per fare alcuni nomi. Ho insistito con quegli scrittori che più amo e che leggo e rileggo: Pavese, Pessoa, Proust, Svevo, Seneca…Mi sono addentrato, e continuo a farlo, nel meraviglioso mondo dell’arte e della poesia alla ricerca di bellezza e di sensazioni. Ho esplorato con passione la mia terra – il Cilento – con i suoi paesi arroccati sulle colline e ho descritto le bellezze e le brutture di una delle città più affascinanti del mondo, Roma, dove vivo da tanti anni. Ho osservato fatti e misfatti di questa nostra società, sempre più omologata e globalizzata,  cercando di capire il mondo tecnologico con i suoi derivati, che tutto forgia a sua immagine e somiglianza. Un mondo  lontano anni luce dalla mia filosofia di vita, che non prevede urgenze da smartphone. Ho solo sfiorato la politica, che mi ha deluso e mi ha tradito, e non vado più a votare. Ho cercato di guardare, più da vicino, i mezzi di comunicazione di massa che veicolano e manipolano informazioni e individui. Ho raccontato le mie malinconie, la mia solitudine, i miei rimpianti, le mie nostalgie. Mi sono fermato a riflettere sul tempo che scorre e lascia i suoi segni indelebili sulle cose e sugli uomini. E mi sono confrontato piacevolmente con persone squisite che – da dieci anni - hanno ancora la pazienza di leggermi.


giovedì 19 ottobre 2023

Imparare le poesie a memoria

 


Italo Calvino sosteneva che imparare le poesie a memoria, ripeterle mentalmente da bambini, da giovani ma anche da vecchi, è un ottimo esercizio per tenere viva la memoria e combattere l’astrattezza del linguaggio che ci viene imposto. E poi le poesie fanno tanta compagnia. Si potrebbe cominciare con quelle più corte, più facili da ricordare.

 Corre senza guinzaglio la poesia.

Nessuno si azzardi a dire: è mia.

Franco Marcoaldi


lunedì 16 ottobre 2023

Caro, dolcissimo Proust...

 


“Tu sei stato l’ultimo erede di una tradizione che ha creduto, come fine supremo dell’uomo, nell’arte. Hai esplorato con estremo coraggio il Continente Uomo, nei suoi vizi e nei suoi ideali. Hai estratto dal mondo fisico dei segni che nessun altro era riuscito a decifrare. Hai scoperto giardini nelle tazze da tè. Il campanile di una chiesa, una siepe di biancospino, i ciottoli disuguali del cortile di una casa, l’odor di muffa di un gabinetto, il rumore di un cucchiaio contro un piatto o lo scorrere dell’acqua nei tubi, e tante piccole cose per altri insignificanti hanno trovato in te lo storico e il poeta: e così i tristi effetti della patologia, della nevrosi, i tic, le nevralgie, i nostri peccati futili e gravi. Ti sei murato prigioniero in un faro, come Baudelaire, mescolando nell’ampia coppa del tuo sistema sostanze disparatissime: positivismo e bergsonismo, misticismo e intelletto, estasi e analisi, critica e immaginazione, platonismo e conoscenza. Parlando di tutto, di pittura, di teatro, di architettura, di musica, di poesia, inseguivi la specifica e volatile essenza delle cose, per la riconquista di un paradiso di essenze. Modernissimo fino allo spasimo, hai adorato perdutamente il sapore, il colore di cose vecchie e svanite della Francia “seigneuriale” e borghese, nel mistero religioso delle cattedrali, nella maestà della pietra.

Più di noi che in esse viviamo hai amato le nostre città, anche quelle che non conoscevi o che conoscevi soltanto attraverso mediocri riproduzioni o il suono vivo del loro nome: Parma, Firenze. Hai riversato nelle tue pagine le ansie ingenue del bambino e le insensate manie aristocratiche e, nella circolarità della tua esperienza, con quale tenerezza crudele osservavi la metamorfosi dello splendido volto umano nella immonda maschera goyesca, nelle decrepite ombre che in un istante d’allucinazione credono di essere libere, così come le belve, chiuse nelle gabbie del Jardin del Plantes, sognano di trovarsi nei deserti dell’Africa. Nella tua infinita prolissità ci hai costretto a soffrire, ad amare, ad annoiarci, ci hai regalato tristezza ed entusiasmo, fiducia e sconforto, guidandoci nella tua folta selva per poi disperderci, umiliarci. Hai scritto un’altra Commedia, o un nuovo Roman de la Rose. Ed ora che sulla tua opera si è depositata, come nelle antiche pitture, l’unità trasparente che chiamasti <<le vernis des maitres>>, e la patina è il velo che solo il tempo sa dare alle immagini dell’arte, anche ora avvertiamo di non poterti situare nella tranquilla luce diffusa, un po' fredda, che impongono le cosiddette operazioni critiche della storia. Da tutto quel che si è scritto, che è come una cattedrale piena di irte guglie su un’altra immensa cattedrale, ci basta ricavare la consolante certezza, che hai cambiato il vecchio mondo senza distruggerlo”.

Giovanni Macchia – “L’angelo della notte”


lunedì 9 ottobre 2023

Leggere lentamente

 


Leggo con estrema lentezza, che sia una pagina di un romanzo o un articolo di giornale. Quando prendo in mano un libro, intendo fare un percorso di pacata riflessione non già una gara di velocità con la scrittura, per arrivare rapidamente alla fine. E’ come intraprendere un viaggio: la felicità non è raggiungere la destinazione finale, ma godersi le bellezze lungo il percorso. Posso anche leggere solo poche pagine, fermarmi e poi riprendere la lettura: un modo questo per interiorizzare, ripensare, fantasticare. Spesso sento dire: “è un libro che ho letto tutto d’un fiato”; oppure, “l’ho divorato in una sola notte”. Devo dire che io non sono così vorace: e poi di notte preferisco dormire…quando ci riesco. E’ un tipo di lettura che non mi appartiene, e se un libro mi piace, amo sorbirlo piano piano, parola dopo parola, anziché ingurgitarlo. Diciamo che lo faccio durare di più.

Il libro è il cibo dell’anima e, al pari di un piatto prelibato, va “masticato” lentamente per assaporarlo meglio in tutti i suoi aspetti. Occorrono anni di lavoro per scrivere un libro e – secondo il mio parere - non lo si può mettere da parte e liquidare solo dopo poche ore di lettura. E’ come fare uno sgarbo al suo autore e non riconoscere il suo impegno, la sua fatica di scrivere. In qualche maniera, il modo di leggere è l’espressione del “ritmo” che abbiamo imposto alla nostra esistenza: c’è chi preferisce correre, quindi leggere molti libri, stare dietro a tutte le novità editoriali; c’è chi dice di avere poco tempo a disposizione e salta le pagine, per arrivare subito alla fine; e chi invece predilige passeggiare con le parole, andare piano, stare più a lungo con  il suo libro. Secondo lo scrittore Milan Kundera c’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. Infatti se una persona cammina per strada e, ad un tratto, cerca di ricordare qualcosa, immediatamente rallenta il passo, si ferma a pensare. Chi invece vuole dimenticare, accelera la sua andatura, perché vuole allontanare da sé il passato. E il lettore compulsivo è uno che ha fretta, che ama la velocità, e non vede l’ora di passare al libro successivo, che è sempre migliore del precedente.

Leggere lentamente, invece, è voler ricordare, è soffermarsi sulle parole ascoltandone la cadenza, la musicalità, il significato più profondo; è saper cogliere il silenzio che si nasconde tra una frase e l’altra; è poter distogliere, ogni tanto, gli occhi e la mente dalla pagina per pensare e viaggiare in un mondo parallelo; è trovare connessioni e collegamenti con altri libri. Leggere lentamente è fantasticare; è poter sottolineare ciò che più colpisce l’immaginazione. E’ chiaro che è una modalità di lettura, questa, suggerita solo dai grandi autori della letteratura, cioè da quei libri che non si abbandonano mai, che si lasciano ma poi si riprendono, che si tengono sempre a portata di mano sul comodino, perché la sola vista procura piacere.


domenica 1 ottobre 2023

La pubblicità ti fa sentire sempre insoddisfatto

 


Fare leva sulle emozioni e sui sentimenti della gente, per spingerla a desiderare e a comprare una cosa, è una delle manipolazioni più aberranti dell’odierna società dei consumi. Lo dico senza mezzi termini: io detesto la pubblicità in tutte le sue forme. La evito come la peste, non la guardo, eppure riesce spesso a imbrigliarmi con i suoi invadenti tentacoli. Lo scrittore Erri De Luca sostiene che non può farne a meno: lui dice che è l’unico modo per sapere quali sono i prodotti da non comprare. E’ una strategia anche questa, ma non so quanto sia vincente. Io però preferisco oscurarla, la pubblicità: seguire e avvalorare, in qualche maniera, i suoi messaggi ossessivi mentre interrompono la visione di un programma televisivo, significa farsi del male da soli. 

La pubblicità è un vero e proprio bombardamento quotidiano, continuo e intollerabile. Prima di comprare un prodotto che davvero serve, sarebbe meglio leggere attentamente l’etichetta, anziché fidarsi dei “consigli per gli acquisti”. D’altra parte il motto di chi fa pubblicità è: “non prendete la gente per stupida, ma non dimenticate mai che lo è”. Insomma, i pubblicitari – i “creativi” della nostra epoca - non hanno grande stima delle persone a cui si rivolgono con parole e immagini, sempre false e ingannatrici.  E se poi uno spot pubblicitario – uno come tanti – viene enfatizzato e addirittura additato come opera d’arte, fino a monopolizzare il dibattito socio-culturale di un paese, allora significa che siamo veramente alla frutta.

Frédéric Beigbeder - prima di diventare un personaggio noto - faceva il pubblicitario in una grande agenzia francese. Nel 2000, consapevole che la pubblicazione di un suo libro “99 francs” (tradotto in italiano “Lire 26.900”) gli avrebbe causato il licenziamento, non esitò a denunciare, in una maniera davvero spietata, tutto il marcio del mondo della pubblicità. Così scrive nel suo libro:

“Tutto si compra: l’amore, l’arte, il pianeta Terra, voi, io. Scrivo questo libro per farmi licenziare. Se mi dimettessi, non beccherei l’indennità. Mi tocca segare il confortevole ramo su cui sto appollaiato…Preferisco essere sbattuto fuori da un’impresa che dalla vita. (…) Sono un pubblicitario: ebbene sì, inquino l’universo. Io sono quello che vi vende tutta quella merda. Quello che vi fa sognare cose che non avrete mai. Cielo sempre blu, ragazze sempre belle, una felicità perfetta, ritoccata in Photoshop. Immagini leccate, musiche nel vento. Quando, a forza di risparmi, voi riuscirete a pagarvi l’auto dei vostri sogni, quella che ho lanciato nella mia ultima campagna, io l’avrò già fatta passare di moda. Sarò già tre tendenze più avanti, riuscendo così a farvi sentire sempre insoddisfatti. Il Glamour è il paese dove non si arriva mai. Io vi drogo di novità, e il vantaggio della novità è che non resta mai nuova. C’è sempre una novità più nuova che fa invecchiare la precedente. Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma. La vostra sofferenza dopa il commercio. Nel nostro gergo l’abbiamo battezzata “frustrazione post-acquisto”. Non potete stare senza un prodotto, ma non appena lo possedete, dovete averne un altro. L’edonismo non è un umanismo: è un cash-flow. Il suo motto? “Spendo dunque sono”. Ma per creare bisogni si devono stimolare la gelosia, il dolore, l’insoddisfazione: sono queste le mie munizioni. E il mio bersaglio siete voi. (…) Siete di fronte a individui che disprezzano il pubblico, che vogliono mantenerlo in un atto d’acquisto stupido e condizionato. Nel loro animo si rivolgono alla “rincoglionita sotto i cinquant’anni”. Voi cercate di proporre qualcosa di divertente, che rispetti un po' la gente, che tenti di tirarla verso l’alto, perché è una questione di buona creanza quando s’interrompe un film in tv. E vi viene impedito. (…) Idealmente, in democrazia, l’intento dovrebbe essere quello di utilizzare il formidabile potere della comunicazione per smuovere le menti anziché annientarle. Questo non succede mai perché le persone che dispongono di questo potere preferiscono non correre rischi. (…) Vedrete che un giorno vi tatueranno un codice a barre sul polso. Sanno che il vostro unico potere risiede nella vostra carta di credito. Hanno bisogno di impedirvi di scegliere. Devono trasformare i vostri atti gratuiti in atti d’acquisto. (…) Gli uomini politici non controllano più nulla; è l’economia che governa. Il marketing è una perversione della democrazia: è l’orchestra a dirigere il direttore. Sono i sondaggi che fanno la politica, i test che fanno la pubblicità, i panel che scelgono la programmazione musicale alla radio, le “sneak preview” che determinano il finale del film, l’auditel che fa la televisione. (…) Creativo non è un mestiere in cui devi giustificare il tuo salario; è il salario a giustificare il tuo lavoro. Come per gli autori di programmi televisivi, la carriera è effimera. Ecco perché un creativo prende in pochi anni quello che una persona normale guadagna in una vita intera. (…) La pubblicità si è messa a dettare legge su tutto. Un’attività che era partita quasi per scherzo domina ormai le nostre vite: finanzia la televisione, condiziona la stampa, regna sullo sport (non è la Francia che ha battuto il Brasile nella finale di Coppa del Mondo, ma Adidas che ha battuto Nike), modella la società, influenza la sessualità, sostiene la crescita economica…”