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mercoledì 31 gennaio 2018

Valore



 
Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca.
Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle.
Considero valore il vino finché dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si è risparmiato, due vecchi che si amano.
Considero valore quello che domani non varrà più niente e quello che oggi vale ancora poco.
Considero valore tutte le ferite.
Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi, provare gratitudine senza ricordare di che.
Considero valore sapere in una stanza dov’è il nord, qual è il nome del vento che sta asciugando il bucato.
Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca, la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.
Considero valore l’uso del verbo amare e l’ipotesi che esista un creatore.
Molti di questi valori non ho conosciuto.

Erri De Luca

venerdì 26 gennaio 2018

Un altare per la madre



“Non si può pensare a lungo alla morte senza impazzire un poco. Dunque tutti siamo un poco pazzi. Questa leggera pazzia è la normalità, chi non ce l’ha non è normale”  

Un altare per la madre -  F. Camon

 
“La bara avanzava ondeggiando”, accompagnata da un piccolo corteo che “percorreva un sentiero stretto e polveroso, di terra sabbiosa, fra spianate di frumento infestato di papaveri: intorno si vedeva più rosso che giallo, e si sentiva un forte odore di erbaglia verde fermentata al sole…”. Si apre così, con questa malinconica scena immersa in un profluvio di colori e profumi di campagna, il romanzo di Ferdinando Camon “Un altare per la madre”, edito da Garzanti nel 1978. Dietro la voce narrante del libro si cela, molto probabilmente, il suo autore che vuole onorare la persona a lui più cara, sua madre, ma vuole anche celebrare una società, una filosofia di vita, un mondo arcaico ormai scomparso, quel mondo rurale e contadino a cui appartiene e si sente legato, che “non aveva nulla a che fare col resto del mondo”. Era un mondo, quello evocato da Camon, dove il legame alla terra, la vita semplice scandita dalle stagioni e dai suoi riti immutabili, la solidarietà tra le persone, il rapporto quotidiano con la fede cristiana, erano valori fondamentali.
Teatro della narrazione è un piccolo paese della campagna veneta (lo scrittore è nato a Padova) e in quella casa di contadini - da cui è partito il corteo funebre - è venuta a mancare all’improvviso una madre, il riferimento più importante del nucleo domestico, la cui vita è stata spesa tra il lavoro dei campi e la famiglia. Ma è venuta a mancare anche un legame importante per l’intera comunità, perché in un paese ci si conosce tutti e quando muore una persona è come se morisse una parte di ognuno di loro. Per giorni non si parla che del morto “che quindi non è mai stato così vivo”.
Quella gente semplice non sa cosa sia la morte e ne è terrorizzata, come lo è di tutte le cose misteriose, fino a quando non bussa alla porta di qualcuno di loro. E allora la paura sembra svanire. Se ne può finalmente parlare: la morte diventa una parte dell’esistenza. Ma con la scomparsa della madre fa irruzione, anche nella vita del figlio, il pensiero della morte. Della sua morte. All’improvviso si sente messo quasi allo scoperto, per la prima volta. E’ come se la generazione precedente, quella a cui apparteneva la madre che lo aveva partorito, facesse da garanzia e lo nascondesse alla morte: non poteva temerla, perché toccava prima a sua madre, secondo un ordine naturale.
E ora che la madre non c’è più, affiorano nella mente del figlio i ricordi di una vita. Dolore e commozione sono i sentimenti che traspaiono dal libro, la cui scrittura presenta uno stile lineare, asciutto, privo di inutili orpelli, che ci rimanda ad una filosofia di vita molto più semplice, legata a valori e tradizioni propri di quella civiltà contadina in via di estinzione.

mercoledì 17 gennaio 2018

Confessioni di una maschera



Io credo che sarebbe riduttivo parlare di letteratura giapponese del Novecento se dimenticassimo uno dei suoi interpreti principali: Yukio Mishima, nato a Tokyo nel 1925, acceso nazionalista nonché sostenitore del potenziamento militare del suo paese e della sua vocazione imperialista, morto suicida nel 1970 con un clamoroso harakiri, alla maniera degli antichi samurai.
“Confessioni di una maschera” (pubblicato nel 1949) è il suo primo e indiscusso capolavoro letterario che gli procurò una immediata popolarità internazionale. Devo dire che mi ero già accostato, nel passato, alla narrativa nipponica leggendo Quel che resta del giorno di Kazuo Ishiguro, un libro di rara bellezza che mi aveva positivamente colpito. La lettura di “Confessioni di una maschera” - in virtù della sua prosa raffinata ed elegante - non poteva che rafforzare la mia stima nei confronti di questi due scrittori del Sol Levante.  Yukio Mishima mette al centro del suo romanzo la “maschera”, quale simbolo metaforico della “doppia identità” di un individuo che si esplica tra realtà ed apparenza, tra sfera intimistica e sfera sociale. La storia ripercorre il dramma esistenziale di un giovane di buona famiglia – ci troviamo nella capitale giapponese nel periodo a cavallo della seconda guerra mondiale – il quale, per non soggiacere ai severi pregiudizi di natura sociale e familiare ed essere, altresì, accettato ed amato da chi gli stava intorno, si vede costretto a nascondere la sua omosessualità e, quindi, il suo personale disinteresse nei confronti delle donne.
E’ un tema, quello della “maschera”, praticamente inseparabile dalle vicende umane, tant’è che nella vita di tutti i giorni le persone non sempre si mostrano per quello che sono realmente, ma sentono spesso il bisogno di indossare una maschera: per puro esibizionismo o per esplicita vanità. Ma anche per convenienza o per inadeguatezza esistenziale. C’è da dire, inoltre, che la maschera ha conquistato tantissimi scrittori fin dai tempi più antichi. Per rimanere nella letteratura del Novecento, basti pensare a Luigi Pirandello ed ai suoi memorabili personaggi descritti ne “Il fu Mattia Pascal” e “Uno, nessuno e centomila”, le cui esistenze sono legate indissolubilmente ad una maschera, dietro alla quale celano la propria natura più intima.
E dietro ad una maschera si nasconde anche il giovane protagonista che nasce dalla penna di Yukio Mishima, per sentirsi normale e difendersi da una società e da un sistema educativo che – in quel determinato periodo storico - mirava a produrre soldati, giovani coraggiosi e virili, “esseri di pura carne animale non viziata dall’intelletto”. Lui invece, il ventenne Kochan, è d’indole assai riservata, ha un fisico gracile e non emerge nello sport, è troppo portato all’introspezione, difetta di audacia ed è chiuso sui libri più del dovuto. Ma la cosa peggiore è che non mostra alcun interesse per le ragazze, come i suoi compagni di scuola, ma prova invece una evidente attrattiva per i corpi maschili; è affascinato dai soldati che muoiono in battaglia e dalla natura tragica del loro mestiere; si sofferma estasiato, ebbro di piacere fisico oltre che estetico, al cospetto del San Sebastiano trafitto dalle frecce di Guido Reni; e già da piccolo, nel leggere le fiabe, non provava alcuna simpatia per le principesse ma voleva bene solo ai principi e tanto più ne voleva “ai principi uccisi o destinati alla morte”. E bastava che un giovane perisse di morte violenta perché lo amasse perdutamente. E allora la morte, per il nostro personaggio, diventa il suo pensiero costante, l’unico che può liberarlo da quel fardello gravoso che lo perseguita da sempre: il dover apparire agli occhi degli altri (la società, la famiglia, gli amici) diverso da come si sente realmente. Però anela ad una “morte gloriosa in battaglia” anche se poi “quando suonavano le sirene d’allarme, quello stesso aspirante a morte gloriosa si lanciava a corsa pazza verso i rifugi, seminando tutti quanti dietro di sé”. Ma bisognava pur vivere e per vivere, il nostro eroe è costretto a fingere una “normalità” che non gli appartiene, a simulare una storia d’amore con la sorella di un suo amico, a reprimere sentimenti e impulsi di vera attrazione fisica nei confronti dei maschi. E a furia di camuffarsi da individuo normale con una maschera di circostanza, il protagonista finisce per logorare quel minimo di normalità che forse possedeva in origine, diventando così una persona incapace di credere in qualcosa che non fosse simulata.

mercoledì 10 gennaio 2018

Gli artisti



Vorrei che qualcuno mi chiarisse la sostanziale differenza che passa tra gli spettacoli televisivi (meglio talk show) diretti da Fabio Fazio e Bruno Vespa e quelli condotti da Bianca Berlinguer e Lucia Annunziata. Qualche volta mi capita di guardarli. A me risulta che tali noiose esibizioni si basino – tutte – su interviste o dibattiti tra il presentatore di turno (che è un giornalista) e vari ospiti, perlopiù personaggi famosi del mondo dello spettacolo e della politica. Ma pare che non sia così. E tutto nasce da una legge che recentemente ha stabilito un tetto di 240 mila euro annui ai dipendenti pubblici, legge recepita immediatamente anche dalla Rai che l’ha imposta al suo interno, in primis ai giornalisti, lasciando però fuori gli “artisti”. E chi sarebbero questi geni della televisione, questi maestri del “bello” che pur conducendo una trasmissione giornalistica sono riusciti a portare a casa un contratto da “artista”, svincolato dal tetto annuo di 240 mila euro? Sono i due anfitrioni della televisione pubblica: Fabio Fazio e Bruno Vespa. I due artisti.
Per l’occasione sono andato a consultare il dizionario della lingua italiana (Devoto – Oli) il quale definisce artista “chi opera nel campo dell’arte come creatore o come interprete (spec. di testi musicali o teatrali)…; chi ha raggiunto un notevole livello di eccellenza nel campo artistico prescelto”. Ora, alla luce di quanto sopra, quando io penso all’artista (senza scomodare i grandi del passato della pittura, della scultura, della musica, dell’arte in generale) il mio pensiero va ad un autore qualsiasi di opere estetiche e culturali dei nostri tempi: per esempio il musicista…l’attore di teatro…il cantante…il poeta…il pittore… e, perché no, il grande calciatore o il grande architetto. Il mio pensiero va al falegname, al fabbro, al decoratore… Ma, francamente, mi riesce davvero difficile accostare Fazio e Vespa al mondo dell’arte e della cultura. Non riesco proprio a capire – guardando “che tempo che fa” e “porta a porta - dove si possa annidare l’anima artistica dei suoi conduttori e ideatori. Faccio una grande fatica ad afferrare l’idea secondo cui le chiacchiere di Fazio, con i suoi ospiti politici, siano da considerare un’espressione artistica, mentre quelle della Berlinguer, con gli stessi ospiti, solo interviste giornalistiche. Evidentemente mi sfugge qualcosa.

venerdì 5 gennaio 2018

Un libro dissotterrato



Mario Puccini, chi era costui? Oggi, sicuramente, mi sarei posto questa domanda se non avessi conosciuto – tanti anni fa - una ragazza (diventata poi mia moglie) che stava scrivendo, a quei tempi, la sua tesi di laurea in Lettere Moderne sulla vita e le opere di uno scrittore marchigiano, nato a Senigallia nel 1887 e morto a Roma nel 1957: Mario Puccini, appunto. Ricordo che la suddetta “ragazza”, non riuscendo a trovare un paio di libri di questo scrittore ed essendo venuta a conoscenza che il figlio (Dario Puccini, critico letterario ed uno dei massimi studiosi di letteratura spagnola) viveva a Roma, mi pregò di andare presso la sua abitazione, per cercare di recuperare quei testi, fondamentali per la preparazione della sua tesi di laurea. Devo dire che Dario Puccini  mi accolse davvero con squisita disponibilità e nel fornirmi i due volumi tanto ricercati, mi omaggiò anche con il romanzo “Gli ultimi sensuali” scritto dal padre Mario (Garzanti editore – 1944). Ricordo ancora che lo “abbandonai” sullo scaffale della mia libreria, senza nemmeno sfogliarlo, tra quei libri che aspettano di essere letti. E lì è rimasto in attesa per oltre 30 anni, con le sue pagine sempre più ingiallite dal tempo. Poi giorni fa, chissà per quale oscura e misteriosa ragione - visto che già altre volte nel passato l’avevo preso tra le mani senza mai decidermi – ho avvertito una strana sensazione: era arrivato finalmente il momento di leggere “Gli ultimi sensuali” di Mario Puccini. L’ho preso con estrema delicatezza, come se fosse una cosa preziosa e rara e man mano che proseguivo nella lettura mi sono accorto che le pagine - che si erano mantenute intatte per tanti anni, seppure un pò ingiallite – iniziavano a staccarsi dal dorso una ad una mentre le sfogliavo, come foglie secche che cadono da un albero in autunno al primo alito di vento. O meglio, come un reperto archeologico che, mantenutosi integro per tanti secoli sepolto sotto una coltre di terra, si sgretola una volta rinvenuto e portato alla luce del sole.
Ma le parole erano intatte, limpide, senza tempo. Una prosa dal sapore antico, se mi è consentito, così lontana dalle mode effimere della letteratura usa e getta dei nostri giorni. Il libro contiene tre brevi racconti, incentrati su tre diverse tematiche: l’amore, l’amicizia e l’impotenza, sentimento quest’ultimo inteso come inadeguatezza del proprio ruolo sociale. L’autore porta avanti la sua narrazione attraverso personaggi riservati, schivi, dall’indole solitaria che appartengono ad una condizione umana inappagata e alienata e ne indaga l’aspetto psicologico della loro esistenza. Mi piace qui riportare l’incipit del primo racconto che io ritengo sia il più bello, quale assaggio dello stile narrativo di questo autore dimenticato. Il protagonista è un professore che vive e insegna a Varese, solo, “tra la scuola dove insegno e la mia camera. Non affetti, non amici, pochi contatti, scarse distrazioni”, il quale decide di ritornare nel suo paese d’origine, per ritrovare ciò che laggiù aveva lasciato di caro e forse il meglio della sua vita: il suo antico amore.

“Trentadue anni che non ritornavo tra le mura, nelle vie; che non respiravo l’aria della mia città. Ma sono contento di essermivi riaffacciato in queste giornate: che da tempo non è più estate, ma il tardo, l’ultimo autunno non è ancora precipitato con le sue ore scopertamente grevi, mollicce: e il sole non è più troppo caldo, pieno, ma neanche si arrende languido e docile al vento che sgruppa ed allenta con estrema facilità le nuvole sulle quali il suo bagliore s’infila e sparpaglia. Al mare non si andava già più in queste mattine; ma la città pareva diventata come più piccola, più meschina: le piazze, le contrade, le case, le piante, sembrava avessero perso ciascuna qualche cosa; una sorta di patina bigia, come una ruggine, macchiava e incupiva tutto…”.
Di questo autore Vasco Pratolini (leggo su Wikipedia) ebbe a dire: “uno dei maestri a cui la letteratura italiana deve rendere giustizia”. Ma la buon’anima di Puccini sta ancora aspettando. I suoi libri non si trovano più da nessuna parte…e chissà se c’è ancora qualcuno che si spinge a fare una tesi di laurea su di lui. Io credo che un romanzo non muore mai fino a quando c’è qualcuno che lo legge e ne parla. Perché leggere un libro introvabile e dimenticato da tutti è come riesumarlo dall’oblio del tempo e dargli nuova vita.